Dalmazia Dalmazia
Si chiama Dalmazia Dalmazia e lo trovate in questi giorni in libreria.
E’ l’ultima fatica cicloletteraria di Emilio Rigatti: un uomo che scrive e pedala alla grande.
Anticipiamo qui di seguito per concessione dell’editore Ediciclo un estratto del libro.
E’ l’ultima fatica cicloletteraria di Emilio Rigatti: un uomo che scrive e pedala alla grande.
Anticipiamo qui di seguito per concessione dell’editore Ediciclo un estratto del libro.
Emilio Rigatti
Dalmazia Dalmazia
Viaggio sentimentale da Trieste alle Bocche di Cattaro – € 16,00
E SE UN’ESTATE IN DALMAZIA…
Quando partii con Altan e Rumiz per Istanbul in bicicletta, nel 2001, potevo contare su una razione K di serbocroato che mi permise di sopravvivere linguisticamente in quelle regioni, dove le persone incontrate ci trattarono con ospitalità meridionale, nonostante i recenti bombardamenti dei caccia della NATO partiti da Aviano. Con la bicicletta iniziava allora un lungo sodalizio mai più sciolto, il cui ultimo effetto è questo libro. Anche se, come forse intuirete dalle pagine di Dalmazia Dalmazia, tale rapporto ha subito una trasformazione radicale in questi anni di pedale quotidiano. Il turismo avventuroso del primo viaggio, quello a Istanbul, negli anni successivi si trasformò in lentezza, da cui nacquero lunghe conversazioni con un ciclista invisibile che, forse, era il mio io sdoppiato.
La bici, non so come dire, si è quasi dissolta, o incorporata così tanto nel viaggio e nel mio stile di vita da diventare necessaria e non percepita come i polmoni. […]
Per spiegare com’è nato questo libro di una pedalata in equilibrio tra strada e memoria devo anche ricordare una persona che per me è stata molto importante per il mio rapporto sentimentale con la Dalmazia: la zia Nora Talpo, detta “di Roma” per distinguerla dalla sua omonima nipote di Fiumicello, sorella di mio padre e infaticabile viaggiatrice, che della prima ha ereditato lo spirito arioso.
Quando ero ospite nella sua casa di Lungotevere Flaminio, che condivideva con sua sorella, la zia Nedda, mi raccontava dei pettegolezzi zaratini di cinquant’anni prima, degli amori e degli amoretti, del teatro e delle letture, degli idrovolanti, di D’Annunzio e del maraschino. Le parole con cui la zia Nora parlava della sua città natale, così almeno mi pareva, erano quelle di una persona che era stata, laggiù, semplicemente felice. Nel senso che non vi scorgevo nostalgia amara, revanscismo, “filo” o “anti”, ma solo la vibrazione di una città ideale, civile, luminosa, una ventosa agorà che non esiste sulla terra. Non so se Zara sia stata veramente così e non lo saprò mai. Sono grato alla zia Nora di Roma – così come a Calvino – per avermi fatto entrare in questa città invisibile, fatta di brezza e gioventù senza fine, libertà e amori, teatri e caffè, incanto e disincanto, da cui nessuno mi potrà cacciare. Quasi che gli affanni insanguinati del mondo e della storia fossero rimasti fuori dai suoi bastioni, su cui veglia il leone di San Marco. […] Ma c’era dell’altro: il desiderio di rifare a pedali un viaggio che avevo fatto negli anni 80 a bordo della mia vespa e che mi aveva portato fino in Montenegro. Ero stato a Četinje, la capitale storica sostituita poi da Titograd, oggi Podgorica. A causa di un guasto ero stato costretto a una sosta forzata di una settimana vicino a Budva, ospite di una famiglia che mi aveva aiutato e di cui conservavo un grato ricordo. Ecco, volevo rifare in bici proprio quel viaggio, che all’epoca mi era sembrato di un’audacia temeraria e, magari, ritrovare quelle care persone che non vedevo da quasi trent’anni e di cui non sapevo più nulla, neppure se erano passati indenni attraverso il sanguinoso smembramento della Iugoslavia. […]
Quando la zia Nora conobbe mio figlio, che aveva poche settimane ed era la più bella cosa che avevo portato dal Sud America, stava morendo nel suo appartamento romano, assistita dalla zia Nedda. Era imbarazzata e addolorata per non riuscire a capire bene chi fossi, mi confondeva con mio nonno e mio padre, si perdeva per le vie di una Zara di settant’anni fa. Ebbi l’impressione che non vedesse me, ma una sorta di anima archetipica della famiglia, un totem indescrivibile, una chiara e abbacinante confusione di tratti somatici, vie, venti, ricordi, persone, quasi che il vero amore non avesse bisogno di un oggetto specifico, materiale verso cui manifestarsi. Ma nella confusione della malattia, che la spense dopo un mese, continuava a volermi confusamente bene e gli occhi, pur in mezzo al naufragio, scintillavano persi e stupiti. Immagino – posso solo immaginarli, ormai – i suoi occhi accendersi ai racconti ciclistici del nevodo mato. Non ho nessun dubbio che questo viaggio l’avrebbe appassionata quanto e più delle mie peripezie sudamericane. È perciò che questo libro, che racconta di una pedalata nella sua e nella mia Dalmazia, così diverse e così uguali, lo dedico anche a lei. E a quanti sanno che i cammini che intraprendono gli uomini e le chiglie delle navi hanno, a volte, esiti inaspettati: porti, ma anche incagli e naufragi. Quindi, anche a chi si accinge a viaggiare assieme a me con questo libro, seduto sul sellino o in poltrona, auguro buona rotta tra le righe, gli scogli, il mare blu della Dalmazia.
Per spiegare com’è nato questo libro di una pedalata in equilibrio tra strada e memoria devo anche ricordare una persona che per me è stata molto importante per il mio rapporto sentimentale con la Dalmazia: la zia Nora Talpo, detta “di Roma” per distinguerla dalla sua omonima nipote di Fiumicello, sorella di mio padre e infaticabile viaggiatrice, che della prima ha ereditato lo spirito arioso.
Quando ero ospite nella sua casa di Lungotevere Flaminio, che condivideva con sua sorella, la zia Nedda, mi raccontava dei pettegolezzi zaratini di cinquant’anni prima, degli amori e degli amoretti, del teatro e delle letture, degli idrovolanti, di D’Annunzio e del maraschino. Le parole con cui la zia Nora parlava della sua città natale, così almeno mi pareva, erano quelle di una persona che era stata, laggiù, semplicemente felice. Nel senso che non vi scorgevo nostalgia amara, revanscismo, “filo” o “anti”, ma solo la vibrazione di una città ideale, civile, luminosa, una ventosa agorà che non esiste sulla terra. Non so se Zara sia stata veramente così e non lo saprò mai. Sono grato alla zia Nora di Roma – così come a Calvino – per avermi fatto entrare in questa città invisibile, fatta di brezza e gioventù senza fine, libertà e amori, teatri e caffè, incanto e disincanto, da cui nessuno mi potrà cacciare. Quasi che gli affanni insanguinati del mondo e della storia fossero rimasti fuori dai suoi bastioni, su cui veglia il leone di San Marco. […] Ma c’era dell’altro: il desiderio di rifare a pedali un viaggio che avevo fatto negli anni 80 a bordo della mia vespa e che mi aveva portato fino in Montenegro. Ero stato a Četinje, la capitale storica sostituita poi da Titograd, oggi Podgorica. A causa di un guasto ero stato costretto a una sosta forzata di una settimana vicino a Budva, ospite di una famiglia che mi aveva aiutato e di cui conservavo un grato ricordo. Ecco, volevo rifare in bici proprio quel viaggio, che all’epoca mi era sembrato di un’audacia temeraria e, magari, ritrovare quelle care persone che non vedevo da quasi trent’anni e di cui non sapevo più nulla, neppure se erano passati indenni attraverso il sanguinoso smembramento della Iugoslavia. […]
Quando la zia Nora conobbe mio figlio, che aveva poche settimane ed era la più bella cosa che avevo portato dal Sud America, stava morendo nel suo appartamento romano, assistita dalla zia Nedda. Era imbarazzata e addolorata per non riuscire a capire bene chi fossi, mi confondeva con mio nonno e mio padre, si perdeva per le vie di una Zara di settant’anni fa. Ebbi l’impressione che non vedesse me, ma una sorta di anima archetipica della famiglia, un totem indescrivibile, una chiara e abbacinante confusione di tratti somatici, vie, venti, ricordi, persone, quasi che il vero amore non avesse bisogno di un oggetto specifico, materiale verso cui manifestarsi. Ma nella confusione della malattia, che la spense dopo un mese, continuava a volermi confusamente bene e gli occhi, pur in mezzo al naufragio, scintillavano persi e stupiti. Immagino – posso solo immaginarli, ormai – i suoi occhi accendersi ai racconti ciclistici del nevodo mato. Non ho nessun dubbio che questo viaggio l’avrebbe appassionata quanto e più delle mie peripezie sudamericane. È perciò che questo libro, che racconta di una pedalata nella sua e nella mia Dalmazia, così diverse e così uguali, lo dedico anche a lei. E a quanti sanno che i cammini che intraprendono gli uomini e le chiglie delle navi hanno, a volte, esiti inaspettati: porti, ma anche incagli e naufragi. Quindi, anche a chi si accinge a viaggiare assieme a me con questo libro, seduto sul sellino o in poltrona, auguro buona rotta tra le righe, gli scogli, il mare blu della Dalmazia.
A bordo della sua inseparabile bicicletta, che ormai gli è indispensabile come lo sono i polmoni, si fa beffe della home insurance “lunga salsiccia di automobili in piena cottura, odorosa di sudore e gas di scarico” e percorre chilometri di città invisibili, di ricordi familiari, e di tracce lasciate vent’anni prima durante un viaggio in vespa per quegli stessi luoghi. Vorrebbe ritrovare il vecchio Mate e i suoi amici del Montenegro che lo avevano ospitato nell’83: “Chissà se sono vivi houston investment property, con in mezzo vent’anni e una guerra può essere successo di tutto”.
Da Ruda a Kraljevica, da Pago all’amata Zara (una Zara calviniana da dove proviene il ramo paterno della sua famiglia), e poi a Rogovnica, Bol, Hvar, Neum, Gruda, Rezevici fino a Cetinje e alle Bocche di Cattaro: un itinerario intriso di magia, che ha poco da spartire con “l’inferno turistico”. Quello di Emilio Rigatti, infatti, è un viaggio sentimentale, sterniano, in cui le variazioni cromatiche del paesaggio e la luce dalmatica bankruptcy, “verticale, eccessiva, alluvionale”, mitigano la canicola e la fatica, e i bicchieri di rakia e le “storie balcaniche” nascondono le ferite ancora dolenti della guerra.
Alla fine del viaggio il viandante Rigatti è assalito da un groppo alla gola, da un senso di straniamento, di nostalgia e leggerezza, e mentre col pensiero naviga verso altre storie life insurance, ci lascia in balia di un’inguaribile febbre di andare.