Un campione di razza
Il primo grande campione ciclista americano si chiamava Major Taylor ed era un nero. I siti americani sono ovviamente pieni di notizie su questo precursore del predominio degli atleti di colore nello sport d’oltre oceano ma io l’ho incontrato solo oggi, leggendo il libro “The Cycling Manifesto”, di Robert Hurst, un testo di cui presto faremo una recensione. Major Taylor nacque povero nel lontano 1878 (come si legge su wikipedia, edizione inglese) e si guadagnò il soprannome (il suo vero nome era Marshall Walter Taylor) saltellando sulla bici e facendo altre acrobazie vestito da soldato, come attrazione pubblicitaria davanti a un negozio dell’Indiana. Qualcuno si accorse delle notevoli doti atletiche di quel ragazzino e lo indusse a partecipare a qualche corsa. Appena cominciò a vincere, lo stato dell’Indiana gli proibì l’iscrizione ad altre gare in quanto nero, così Major si trasferì nel più tollerante Connecticut e cominciò la carriera di corridore su pista.
Il culmine del successo fu la vittoria mondiale sulla distanza del miglio nel 1899, a ventun’anni. Era talmente più forte degli avversari che nella sua prima gara professionale su questa distanza, al Madison Square Garden di New York, staccò gli avversari di un intero giro di pista. Nonostante fosse acclamato all’estero, in patria continuò a subire gravi discriminazioni per il colore della pelle, ricordate nella sua autobiografia, The Fastest Bicycle Rider in the World. Il mondo del ciclismo americano di fine ottocento era infatti dominato da bianchi benestanti e razzisti, al punto che, come riferisce Hurst nel suo libro, la lega americana dei ciclisti (Law, League of American Wheelmen), un’associazione all’epoca estremamente attiva nel sostenere la causa della ciclabilità delle strade e dei diritti di mobilità dei ciclisti, introdusse nel 1894 il requisito di essere “bianco” tra quelli necessari per l’iscrizione. La cosa strana è che questo anacronistico divieto è stato formalmente rimosso solo nel 1999, un secolo dopo il titolo mondiale di Taylor. Per celebrare l’evento la Law ha concesso un’iscrizione postuma al campione di ciclismo, deceduto ancor più povero di quando era nato, nel lontano 1932, quando la discriminazione razziale era tutt’altro che un ricordo. Oggi che un afromericano siede alla Casa Bianca mi pare che questa storia meritasse di essere ricordata.
Il culmine del successo fu la vittoria mondiale sulla distanza del miglio nel 1899, a ventun’anni. Era talmente più forte degli avversari che nella sua prima gara professionale su questa distanza, al Madison Square Garden di New York, staccò gli avversari di un intero giro di pista. Nonostante fosse acclamato all’estero, in patria continuò a subire gravi discriminazioni per il colore della pelle, ricordate nella sua autobiografia, The Fastest Bicycle Rider in the World. Il mondo del ciclismo americano di fine ottocento era infatti dominato da bianchi benestanti e razzisti, al punto che, come riferisce Hurst nel suo libro, la lega americana dei ciclisti (Law, League of American Wheelmen), un’associazione all’epoca estremamente attiva nel sostenere la causa della ciclabilità delle strade e dei diritti di mobilità dei ciclisti, introdusse nel 1894 il requisito di essere “bianco” tra quelli necessari per l’iscrizione. La cosa strana è che questo anacronistico divieto è stato formalmente rimosso solo nel 1999, un secolo dopo il titolo mondiale di Taylor. Per celebrare l’evento la Law ha concesso un’iscrizione postuma al campione di ciclismo, deceduto ancor più povero di quando era nato, nel lontano 1932, quando la discriminazione razziale era tutt’altro che un ricordo. Oggi che un afromericano siede alla Casa Bianca mi pare che questa storia meritasse di essere ricordata.
Vi prego di osservare con attenzione la bicicletta della foto, a trasmissione cardanica.