The Cyclist’s Manifesto
“La bicicletta non risolverà i problemi del mondo, ma potrebbe risolvere molto bene alcuni dei vostri”.
È in questa battuta che si potrebbe forse riassumere la filosofia del libro di Robert Hurst “The Cyclist’s Manifesto”, disponibile da questo mese nella collana americana Falcon Guides (www.falcon.com), che la redazione di ilikebike.org ha ricevuto in anteprima dall’editore Pequot Press.
Robert Hurst è un “messenger”, cioè un fattorino ciclista che ha pedalato quasi 300mila km in giro per gli States, trasportando in mezzo al traffico ben 80mila tra plichi postali e pacchettini, ma è anche uno scrittore appassionato di cose ciclistiche e di storia, che ha già pubblicato pochi anni fa “The Art of Cycling”, un libro del quale parleremo prossimamente.
Nel primo capitolo del suo Manifesto Hurst traccia un quadro storico molto interessante, vediamo un’America di fine ottocento dove i trasporti sono per certi versi dominati dalla bicicletta, un mezzo molto amato perché leggero, veloce ed autonomo, che scorre via su strade in maggioranza bianche lasciandosi alle spalle pedoni e carri trainati da cavalli, e che può essere battuta solo sulle lunghe distanze dal colossale, fumoso e rumoroso treno a vapore.
Purtroppo il quadro si complica quando i benestanti appassionati della costosa bicicletta, della quale apprezzano in verità soprattutto l’ebbrezza della velocità, nel giro di qualche anno si trasformano in sostenitori ancor più entusiasti dell’automobile. A distanza di oltre cent’anni il problema generale affrontato da Hurst con questo libro consiste nel determinare una strategia efficace per convincere gli americani del Duemila che la bicicletta va considerata come un utile mezzo di trasporto, superando diffidenze e luoghi comuni che circondano il mezzo negli States. Per dirne una buffa, in America molti sono convinti che per usare la bici bisogna per forza vestirsi da ciclisti sportivi, elmetto e pantaloncini attillati compresi, se pensate a qualche film Usa visto di recente in effetti l’iconografia del ciclista americano è proprio quella.
Più complesso il problema della sicurezza, che Hurst affronta senza falsi pudori e senza negare che in effetti la bicicletta è statisticamente più pericolosa dell’auto, ma sostenendo che il ciclista (e qui siamo completamente d’accordo) è il solo vero responsabile della sua sicurezza, e che un adulto, esperto e cosciente dei rischi che corre, può cavarsela benissimo circolando in bici per tutta la vita senza incidenti superiori all’occasionale sbucciatura.
Dal libro si ricava anche uno spaccato del dibattito che caratterizza la ciclabilità americana, per esempio si viene a conoscenza di un certo John Forester, ingegnere del Mit, che da molti anni negli Usa teorizza come massimo della sicurezza il cosiddetto “ciclista veicolare” il quale si comporta, e viene trattato dagli altri utenti della strada, come se guidasse un’auto, e quindi non ha bisogno di speciali corsie ma deve solo tenere la destra.
Hurst avversa questa teoria portando numerosi argomenti contrari, anche se poi dichiara anche lui di non essere un particolare sostenitore delle piste ciclabili “all’europea”, dove per Europa si intende quella a nord delle Alpi naturalmente.
Hurst sostiene invece l’estrema efficacia del linguaggio dei segni, in particolare della segnaletica stradale orizzontale. Uno di questi segnali, da noi sconosciuto e che lui chiama “sharrow”, contrazione di shared e arrow, è raffigurato anche sulla copertina del libro: si tratta della consueta sagoma stilizzata della bici, preceduta e seguita da due grosse frecce (arrows) bianche che puntano nelle due direzioni. La potenza di questo segno, che va tracciato in grande formato e dunque è sempre ben visibile dall’automobilista, sta nell’indicargli che quella strada è condivisa (shared) con le biciclette, non è solo sua, in una parola che essa è ciclabile e che va percorsa con prudenza.
Io ho sempre pensato che una segnaletica del genere dovrebbe essere tracciata su tutto l’asfalto della ztl di Bologna, ad indicare il diritto dei ciclisti a percorrere le strade del centro anche contromano, Hurst si spinge più in là e pretende di vederlo quasi ovunque, con la sola presumibile eccezione delle tangenziali e delle superstrade.
Insomma, questo Manifesto del Ciclista è un libretto stimolante ma anche a tratti un po’ frammentario, non è pedante, anzi talvolta si sorride, però è molto americano, utile senz’altro come elemento di una materia che non esiste, la cultura ciclistica urbana comparata, per la quale riserviamo da oggi un piccolo scaffale virtuale, in attesa di contributi da altri angoli del mondo.
È in questa battuta che si potrebbe forse riassumere la filosofia del libro di Robert Hurst “The Cyclist’s Manifesto”, disponibile da questo mese nella collana americana Falcon Guides (www.falcon.com), che la redazione di ilikebike.org ha ricevuto in anteprima dall’editore Pequot Press.
Robert Hurst è un “messenger”, cioè un fattorino ciclista che ha pedalato quasi 300mila km in giro per gli States, trasportando in mezzo al traffico ben 80mila tra plichi postali e pacchettini, ma è anche uno scrittore appassionato di cose ciclistiche e di storia, che ha già pubblicato pochi anni fa “The Art of Cycling”, un libro del quale parleremo prossimamente.
Nel primo capitolo del suo Manifesto Hurst traccia un quadro storico molto interessante, vediamo un’America di fine ottocento dove i trasporti sono per certi versi dominati dalla bicicletta, un mezzo molto amato perché leggero, veloce ed autonomo, che scorre via su strade in maggioranza bianche lasciandosi alle spalle pedoni e carri trainati da cavalli, e che può essere battuta solo sulle lunghe distanze dal colossale, fumoso e rumoroso treno a vapore.
Purtroppo il quadro si complica quando i benestanti appassionati della costosa bicicletta, della quale apprezzano in verità soprattutto l’ebbrezza della velocità, nel giro di qualche anno si trasformano in sostenitori ancor più entusiasti dell’automobile. A distanza di oltre cent’anni il problema generale affrontato da Hurst con questo libro consiste nel determinare una strategia efficace per convincere gli americani del Duemila che la bicicletta va considerata come un utile mezzo di trasporto, superando diffidenze e luoghi comuni che circondano il mezzo negli States. Per dirne una buffa, in America molti sono convinti che per usare la bici bisogna per forza vestirsi da ciclisti sportivi, elmetto e pantaloncini attillati compresi, se pensate a qualche film Usa visto di recente in effetti l’iconografia del ciclista americano è proprio quella.
Più complesso il problema della sicurezza, che Hurst affronta senza falsi pudori e senza negare che in effetti la bicicletta è statisticamente più pericolosa dell’auto, ma sostenendo che il ciclista (e qui siamo completamente d’accordo) è il solo vero responsabile della sua sicurezza, e che un adulto, esperto e cosciente dei rischi che corre, può cavarsela benissimo circolando in bici per tutta la vita senza incidenti superiori all’occasionale sbucciatura.
Dal libro si ricava anche uno spaccato del dibattito che caratterizza la ciclabilità americana, per esempio si viene a conoscenza di un certo John Forester, ingegnere del Mit, che da molti anni negli Usa teorizza come massimo della sicurezza il cosiddetto “ciclista veicolare” il quale si comporta, e viene trattato dagli altri utenti della strada, come se guidasse un’auto, e quindi non ha bisogno di speciali corsie ma deve solo tenere la destra.
Hurst avversa questa teoria portando numerosi argomenti contrari, anche se poi dichiara anche lui di non essere un particolare sostenitore delle piste ciclabili “all’europea”, dove per Europa si intende quella a nord delle Alpi naturalmente.
Hurst sostiene invece l’estrema efficacia del linguaggio dei segni, in particolare della segnaletica stradale orizzontale. Uno di questi segnali, da noi sconosciuto e che lui chiama “sharrow”, contrazione di shared e arrow, è raffigurato anche sulla copertina del libro: si tratta della consueta sagoma stilizzata della bici, preceduta e seguita da due grosse frecce (arrows) bianche che puntano nelle due direzioni. La potenza di questo segno, che va tracciato in grande formato e dunque è sempre ben visibile dall’automobilista, sta nell’indicargli che quella strada è condivisa (shared) con le biciclette, non è solo sua, in una parola che essa è ciclabile e che va percorsa con prudenza.
Io ho sempre pensato che una segnaletica del genere dovrebbe essere tracciata su tutto l’asfalto della ztl di Bologna, ad indicare il diritto dei ciclisti a percorrere le strade del centro anche contromano, Hurst si spinge più in là e pretende di vederlo quasi ovunque, con la sola presumibile eccezione delle tangenziali e delle superstrade.
Insomma, questo Manifesto del Ciclista è un libretto stimolante ma anche a tratti un po’ frammentario, non è pedante, anzi talvolta si sorride, però è molto americano, utile senz’altro come elemento di una materia che non esiste, la cultura ciclistica urbana comparata, per la quale riserviamo da oggi un piccolo scaffale virtuale, in attesa di contributi da altri angoli del mondo.
Nella giungla d’asfalto, il risciò supera le auto, s’infila in mezzo alle corsie, prende le scorciatoie. Emissioni di CO2: zero. Inquinamento acustico: zero, … E’ un esempio fra tanti di “consumo frugale” che ci viene dall’Asia.”
Il nuovo libro di Federico Rampini, dal titolo “Slow Economy – Rinascere con saggezza” usa il risciò come metafora di un futuro dove la frugalità (o la decrescita, per dirla con Maurizio Pallante) sarà la traiettoria che l’economia dovrà seguire.
Da New York, a Berlino passando per Londra la diffusione dei risciò come mezzo di trasporto alternativo al taxi, è fenomeno affermato da tempo. A Firenze invece la locale emanazione della Fiab ha dovuto raccogliere duemila firme e consegnarle al sindaco Renzi per chiedere il riconoscimento da parte delle istituzioni locali di questo mezzo di trasporto a impatto zero e il suo inserimento nel novero dei mezzi di trasporto pubblici.
Un’occasione per dare gambe a quei nuovi lavori che in tanti si aspettano dalla cosiddetta green economy e che invece faticano ad affermarsi come dimostra la vicenda che ha visto coinvolto Carlo Mori, il “pedalatore” di risciò a cui la Polizia Municipale di Firenze, l’8 novembre scorso, ha sequestrato il mezzo dopo che era stato “bloccato” dai tassisti presenti in piazza Sa
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