Cinque uomini a zonzo di Franco Pecori
Questo bel racconto parla di 5 amici. Lo ha scritto l’Ing. Pecori che dei cinque è l’unico ancora in vita. Nella foto qui accanto (1940) è sul passo della Futa con Ico Marzocchi. Oltre ad essere uno splendido memoriale è emblematico di come siano sufficienti pochi ingredienti per fare vacanze degne di essere ricordate: amicizia, complicità, tenacia e … una bicicletta. Prendetevi 5 minuti e godetevelo.
Negli anni fra il 1978 e il 1990 cinque tipi piuttosto attempati tutti gli anni ai primi di giugno facevano una settimana di giro turistico in bicicletta.
Erano:
* Marco Foscarini “il colonnello” medico classe 1915
* Franco Ferratini “il delfino”, secondo lui, ma non secondo gli altri medico classe 1922
* Ico Marzocchi avvocato classe 1922
* Duccio Berti Ceroni medico classe 1922
* Io il bimbo più giovane ingegnere classe 1923
(Al museo di Pestum nel 1983 mi toccò di pagare perché, unico, non raggiungevo l’età di 60 anni per l’entrata gratuita).
“L’autodelfino” era quello che causava più problemi perché non stava mai in gruppo e viaggiava sempre al centro della strada, facendo impazzire gli automobilisti.
Quando andavamo nell’Italia del Sud destavamo sempre meraviglia e ilarità perché quelle regioni erano passate senza transizione dall’asino all’auto e in bicicletta si vedevano al massimo i bambini di quattro anni. Così tutte le macchine che ci sorpassavano strombazzavano all’infinito e i bimbi si sporgevano dai finestrini ridendo.
Se era caldo ci toglievamo la camicia e andavamo a torso nudo, cosa che gettava nello sconcerto le popolazioni locali: in Puglia tentarono più volte di rivolgerci la parola in tedesco e a Cagliari, quando ci fermammo in una piazzetta per bere alla fontana centrale, ci accorgemmo che intorno si era fatto il vuoto pneumatico come se fossimo stati cinque marziani.
L’ultima volta, nel 1990, eravamo un po’ arrembati, non più adatti ai 100 km al giorno per più giorni, ma ancora abbastanza validi e sempre disposti a regredire per sette giorni allo stato adolescenziale. Non c’erano ancora i cellulari e quindi anche i contatti col mondo abituale si limitavano a una telefonata alla sera: chiamava uno a turno e lasciava detto di avvertire anche le altre famiglie.
Andammo a Trieste con due automobili con le biciclette montate sul tetto con gli appositi attrezzi: poiché la destinazione era la Dalmazia chiedemmo informazioni su come parcheggiare le auto e ci fu indicato un silos. Per arrivare all’entrata del silos c’era un vialetto, dove dovemmo fermarci perché un cartello indicatore sospeso era più basso dell’altezza che raggiungevano le biciclette. Noi rimuovemmo il cartello e a nessuno dei cinque (laureati !!) venne il sospetto che avesse un significato relativo all’altezza massima consentita. Così quando imboccammo la pista che portava al piano di parcheggio la prima macchina toccò il soffitto.
Se non ci fosse stato un Dio dei rimbambiti si sarebbero dovute distruggere le due bici interessate, ma siccome si vede che il Dio c’era, cedette il portabiciclette e quindi le bici subirono un impatto molto modesto. Io ho sempre con me filo di ferro grosso e sottile, pinze e cacciavite, Ico ha il dono del bricolage e quindi riuscimmo a rimettere in strada le due sinistrate.
Accantonata la vergogna per la incredibile figura, ce ne andammo pedalando al confine Jugoslavo di S.Bartolomeo. Qui saltò fuori che la carta di identità di Franco era scaduta da due giorni: il doganiere slavo sembrava disposto a non dare peso, ma quello italiano fu irremovibile. Decidemmo di tentare a un altro valico, distante una ventina di km, preparando però un piano di emergenza. Marco, che aveva due documenti, era biondo senza barba né baffi come Franco. Sarebbe passato per primo uno di noi regolari; per secondo Franco col documento falso. Se un doganiere avesse sollevato eccezioni, tutti insieme avremmo messo in atto una sceneggiata di meraviglia concludendo che evidentemente nell’albergo dove avevamo pernottato avevano fatto uno scambio di documenti. Naturalmente saremmo tornati tutti indietro. Se invece Franco fosse passato indenne, avrebbero passato il confine anche gli altri tre con Marco in coda perché i due documenti suoi fossero visti il più a distanza possibile l’uno dall’altro.
Poi tutto andò nel modo più semplice: al nuovo varco ci fecero passare senza neanche guardare le foto e noi ce ne andammo a brindare a Capodistria.
Passammo le nostre belle vacanze sulla costa dalmata, senza preoccupazioni, ma quando fummo sulla via del ritorno cominciarono a sorgere dei dubbi: essere respinti all’uscita dall’Italia è un conto, ma rimanere in territorio jugoslavo senza un documento valido è tutto un altro paio di maniche. Non c’erano soluzioni serie e quindi non restava che sperare nella stella degli incoscienti. Incoscienti per la verità eravamo noi quattro che non correvamo nessun rischio personale, ma Franco incominciava a essere conscio della situazione e più ci avvicinavamo al confine, più dava segni di nervosismo.
Quando finalmente arrivò il suo turno di passare, era così preoccupato che nello scendere di bicicletta stramazzò ai piedi dei doganieri. Questa in effetti era la miglior cosa da fare: infatti, dopo averlo rialzato e pulito dalla polvere, i doganieri gli diedero una affettuosa pacca nella schiena e ci mandarono via tutti senza neanche guardare i documenti, forse pensando che c’era il pericolo che qualche altro vecchietto facesse la stessa fine di Franco.
E allora a Trieste ci fu la seconda bevuta.
Se era caldo ci toglievamo la camicia e andavamo a torso nudo, cosa che gettava nello sconcerto le popolazioni locali: in Puglia tentarono più volte di rivolgerci la parola in tedesco e a Cagliari, quando ci fermammo in una piazzetta per bere alla fontana centrale, ci accorgemmo che intorno si era fatto il vuoto pneumatico come se fossimo stati cinque marziani.
L’ultima volta, nel 1990, eravamo un po’ arrembati, non più adatti ai 100 km al giorno per più giorni, ma ancora abbastanza validi e sempre disposti a regredire per sette giorni allo stato adolescenziale. Non c’erano ancora i cellulari e quindi anche i contatti col mondo abituale si limitavano a una telefonata alla sera: chiamava uno a turno e lasciava detto di avvertire anche le altre famiglie.
Andammo a Trieste con due automobili con le biciclette montate sul tetto con gli appositi attrezzi: poiché la destinazione era la Dalmazia chiedemmo informazioni su come parcheggiare le auto e ci fu indicato un silos. Per arrivare all’entrata del silos c’era un vialetto, dove dovemmo fermarci perché un cartello indicatore sospeso era più basso dell’altezza che raggiungevano le biciclette. Noi rimuovemmo il cartello e a nessuno dei cinque (laureati !!) venne il sospetto che avesse un significato relativo all’altezza massima consentita. Così quando imboccammo la pista che portava al piano di parcheggio la prima macchina toccò il soffitto.
Se non ci fosse stato un Dio dei rimbambiti si sarebbero dovute distruggere le due bici interessate, ma siccome si vede che il Dio c’era, cedette il portabiciclette e quindi le bici subirono un impatto molto modesto. Io ho sempre con me filo di ferro grosso e sottile, pinze e cacciavite, Ico ha il dono del bricolage e quindi riuscimmo a rimettere in strada le due sinistrate.
Accantonata la vergogna per la incredibile figura, ce ne andammo pedalando al confine Jugoslavo di S.Bartolomeo. Qui saltò fuori che la carta di identità di Franco era scaduta da due giorni: il doganiere slavo sembrava disposto a non dare peso, ma quello italiano fu irremovibile. Decidemmo di tentare a un altro valico, distante una ventina di km, preparando però un piano di emergenza. Marco, che aveva due documenti, era biondo senza barba né baffi come Franco. Sarebbe passato per primo uno di noi regolari; per secondo Franco col documento falso. Se un doganiere avesse sollevato eccezioni, tutti insieme avremmo messo in atto una sceneggiata di meraviglia concludendo che evidentemente nell’albergo dove avevamo pernottato avevano fatto uno scambio di documenti. Naturalmente saremmo tornati tutti indietro. Se invece Franco fosse passato indenne, avrebbero passato il confine anche gli altri tre con Marco in coda perché i due documenti suoi fossero visti il più a distanza possibile l’uno dall’altro.
Poi tutto andò nel modo più semplice: al nuovo varco ci fecero passare senza neanche guardare le foto e noi ce ne andammo a brindare a Capodistria.
Passammo le nostre belle vacanze sulla costa dalmata, senza preoccupazioni, ma quando fummo sulla via del ritorno cominciarono a sorgere dei dubbi: essere respinti all’uscita dall’Italia è un conto, ma rimanere in territorio jugoslavo senza un documento valido è tutto un altro paio di maniche. Non c’erano soluzioni serie e quindi non restava che sperare nella stella degli incoscienti. Incoscienti per la verità eravamo noi quattro che non correvamo nessun rischio personale, ma Franco incominciava a essere conscio della situazione e più ci avvicinavamo al confine, più dava segni di nervosismo.
Quando finalmente arrivò il suo turno di passare, era così preoccupato che nello scendere di bicicletta stramazzò ai piedi dei doganieri. Questa in effetti era la miglior cosa da fare: infatti, dopo averlo rialzato e pulito dalla polvere, i doganieri gli diedero una affettuosa pacca nella schiena e ci mandarono via tutti senza neanche guardare i documenti, forse pensando che c’era il pericolo che qualche altro vecchietto facesse la stessa fine di Franco.
E allora a Trieste ci fu la seconda bevuta.